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Ken Kesey - Qualcuno volo' sul nido del cuculo pdf

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Ken Kesey - Qualcuno volo' sul nido del cuculo pdf

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Name:Ken Kesey - Qualcuno volo' sul nido del cuculo pdf

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 Ken Kesey - Qualcuno volo' sul nido del cuculo.pdf

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Titolo originale: One Flew Over The Cuckoo's Nest
Titolo italiano: Qualcuno volò sul nido del cuculo
Autore: Ken Kesey
1ª ed. originale: 1962
Data di Pubblicazione: 2001
Genere: Romanzo
Editore: BUR Biblioteca Univ. Rizzoli
Collana: Superbur
Traduttore: Bruno Oddera
Pagine: 394





Ken Kesey, nome completo Kenneth Elton Kesey, nacque a La Junta (Colorado) il 17 settembre 1935.
Ancora giovane, si trasferì con la sua famiglia a Springfield, in Oregon. Sposò Faye Haxby, proprio prima di iniziare il college, da cui ebbe tre figli, Jed, Zane e Shannon. Kesey ebbe però più avanti anche un altro figlio dalla compagna Carolyne Adams, una dei componenti dei Merry Prankster.
Frequentò la Scuola di Giornalismo alla University of Oregon, dove ottenne la laurea in eloquenza e comunicazione nel 1957.
Nel 1959 alla Stanford University Ken Kesey prese volontariamente parte ad uno studio sulle sostanze psicoattive finanziato dalla CIA, noto con il nome di MKULTRA. (LSD, mescalina e psilocibina). Kesey scrisse resoconti molto dettagliati su quest'esperienza, sia durante lo studio vero e proprio, sia negli anni in cui proseguì privatamente la sperimentazione. Il suo ruolo di cavia lo ispirò nel redigere l' opera Qualcuno volò sul nido del cuculo nel 1962. Il successo ottenuto con questo suo libro e la vendita della sua abitazione a Stanford gli permisero di trasferirsi a La Honda, in California, vicino a San Francisco.
Kesey trasse ispirazione dalla sua esperienza nell' ospedale dei veterani di Menlo Park per la stesura di Qualcuno volò sul nido del cuculo. Ne furono poi elaborate sia una versione teatrale che una cinematografica, quest'ultima diretta da Miloš Forman. Kesey, inizialmente coinvolto nella lavorazione del film, rinunciò nel giro di due settimane. Disse di non aver nemmeno mai visto la pellicola perché vi fu una diatriba riguardo ai diritti della sua opera. Inoltre non condivise la scelta di non far narrare la vicenda dal Capo Bromden, come avviene invece nel libro.
Quando la pubblicazione di Sometimes a great notion nel 1964 richiese la presenza di Kesey a New York, questi e i "Merry Pranksters" iniziarono un viaggio attraverso gli USA con uno scuolabus chiamato Furthur o Further.
Di Sometimes a Great Notion fu elaborata una versione cinematografica nel 1971 con Paul Newman, che fu nominato per due Academy Awards.
Kesey fu arrestato per il possesso di marijuana nel 1966. Una volta rilasciato, tornò alla fattoria di famiglia nell'Oregon, a Pleasant Hill, nella Willamette Valley, dove avrebbe poi trascorso il resto della sua vita. In quest'ultimo periodo scrisse molti articoli, libri (anche raccolte di suoi articoli) e racconti brevi.
Kesey morì il 10 novembre 2001 di tumore.



* Qualcuno volò sul nido del cuculo. New York: Viking. 1962.
* Sometimes a Great Notion. New York: Viking. 1964.
* Kesey's Garage Sale. New York: Viking. 1972.
* Demon Box. New York: Penguin. 1986.
* Caverns. New York: Penguin. 1990.
* The Further Inquiry (screenplay). New York: Viking. 1990.
* Sailor Song. New York: Viking, Penguin. 1992.
* Last Go Round (with Ken Babbs). New York: Viking. 1994.
* "Twister" (play). New York: Viking. 1999.



La vicenda semplice ed essenziale si svolge all'interno di un ospedale psichiatrico degli Stati Uniti. Giunge presso il manicomio un giovane di nome Randle P. McMurphy (interpretato da uno splendido Jack Nicholson) che, condannato per reati di violenza, cerca di evitare il carcere spacciandosi per matto. Il suo arrivo comporta importanti cambiamenti volti a far crollare la ferrea disciplina che immobilizza in maniera repressiva la realtà del manicomio.
Con atteggiamento ribelle e spregiudicato McMurphy si prende gioco delle sedute psichiatriche di gruppo, si improvvisa radiocronista di immaginarie partite di baseball, di nascosto riesce ad effettuare una gita in barca con i presunti folli. Più i ricoverati si stringono intorno a lui, più l'istituzione ospedaliera, impersonificata dalla terribile capo infermiera Miss Ratche (Louise Fletcher) aumenta il sistema di repressione disumano. Instaurata l'amicizia con un indiano di gigantesche dimensioni, che si era finto sordo-muto, decide di scappare con lui ma prima, corrompendo il custode, organizza una festicciola notturna per i compagni con la partecipazione di due ragazze fatte entrare clandestinamente.
La mattina successiva la Ratche scopre l'accaduto cogliendo uno dei pazienti, il mite Billy, tra le braccia di una delle due donne. L'infermiera terrorizza il giovane facendo leva sul suo senso di colpa fino ad indurlo al suicidio. La falsa indifferenza dell'infermiera di fronte all'accaduto, preoccupata soltanto di far finta di niente come se nulla fosse successo, porta McMurphy a cercare di ucciderla...
Il seguito dovrete scoprirlo da soli.....

[bIncipit:
PARTE PRIMA
Sono laggiù.
Inservienti negri vestiti di bianco alzatisi prima di me per commettere atti sessuali nel corridoio e lavarlo senza che io possa sorprenderli.
Lo stanno lavando quando esco dal dormitorio, tutti e tre imbronciati e pieni d'odio contro ogni cosa: l'ora della giornata, il luogo in cui si trovano, la gente per la quale devono lavorare. Quando odiano in questo modo, è meglio che non mi vedano. Striscio lungo la parete, silenzioso come la polvere, con le scarpe di tela, ma quelli hanno speciali apparati sensitivi, intercettano la mia fifa e alzano gli occhi tutti insieme, tutti e tre contemporaneamente, occhi splendenti nelle facce nere come lo sfavillio duro delle valvole nella parte posteriore di una vecchia radio.
«Ecco il Capo. Il "suuu-per" Capo, compari. Il vecchio Capo Ramazza. Dove te ne vai, Capo Ramazza...» Mi mettono uno straccio in mano, mi indicano il punto che vogliono farmi pulire oggi, e io vado. Uno di loro mi sferra un colpo con il manico della scopa sui polpacci affinché mi affretti a passare.
«Ehilà, lo vedi come scappa? È alto abbastanza per mangiarmi mele sulla testa e ha paura di me come un bambino.»
Ridono, poi li sento farfugliare alle mie spalle, accostando la testa gli uni agli altri. Ronzio di nere macchine, ronzanti odio e morte e altri segreti dell'ospedale. Non si danno la pena di non parlare a voce alta dei loro segreti saturi d'odio quando io mi trovo nei pressi, perché mi credono sordo e muto. Lo credono tutti. Sono scaltro abbastanza per infinocchiarli fino a questo punto. Se mai l'essere un mezzosangue pellerossa mi ha aiutato in qualche modo in questa sporca vita, mi ha aiutato con la scaltrezza, ecco come, in tutti questi anni.
Sto lavando il pavimento accanto alla porta della corsia quando una chiave viene infilata nella toppa dall'altro lato ed io capisco che si tratta della Grande Infermiera da come gli intagli della serratura si adattano alla chiave, con dolce rapidità e familiarità, tanto a lungo ella ha avuto a che fare con le serrature. Scivola insieme a una folata fredda fuori della porta, la chiude dietro di sé ed io vedo le sue dita strisciare sull'acciaio lucido... la punta di ogni dito ha lo stesso colore delle labbra. Uno strano arancione. Come l'estremità di un saldatore. Un colore così incandescente o così gelido che, se ti tocca, non sai distinguere.
Ha con sé la borsa di paglia intrecciata come quelle che la tribù Umpqua vende lungo le afose strade d'agosto, una borsa dalla forma di una cassetta per attrezzi, con la maniglia di canapa. L'ha sempre avuta da anni, da quando mi trovo qui. È a trama larga e posso vederne il contenuto; non contiene il portacipria o il rossetto per le labbra o altre cose da donne. Ha riempito la borsa con i mille aggeggi che si propone di adoperare mentre è di turno oggi... rotelline e ingranaggi, ruote dentate così lucide da mandare duri riflessi, minuscole pillole che scintillano come porcellana, aghi, forcipi, pinze da orologiaio, rotoli di filo di rame...[/b]



“Qualcuno volò sul nido del cuculo” – più popolare, a quarantacinque anni di distanza dalla pubblicazione, per la riduzione cinematografica (non fedele, ma affascinante) curata da Milos Forman (1975) che per il romanzo: buona ragione per riscoprirlo – è strutturato in quattro parti; io narrante, ed ecco una prima e netta differenza rispetto al film del genio ceko – è Chief Bromden, il Grande Capo, l’indiano mezzosangue silenzioso e ipersensibile che tutti credono sordomuto, sbagliando. Sbagliando, da vent’anni.
In un certo senso, considerando questo aspetto e lo sviluppo dell’intreccio, l’opera può essere letta come un atipico romanzo di formazione: Chief Bromden sarà il personaggio che sopravvivrà all’accaduto, si libererà dalla gabbia che lo ospitava da un pezzo, ritroverà la parola e l’amore per la vita; l’ingresso di McMurphy nel manicomio sarà salutare per scuoterlo dal torpore.
Tre sono i personaggi cardine del libro, ambientato in un ospedale psichiatrico, con episodiche incursioni al di là del muro: detto di Chief Bromden, ecco Miss Ratched, l’antagonista pura; non una dottoressa ma un’infermiera, un’infermiera influente e molto determinata, legata a doppio filo con l’amministrazione, spietata e maligna. Suoi scherani sono degli infermieri neri, rabbiosi e scostanti come lei, scelti proprio per il loro cinismo e la loro chiusura mentale. Esecutori sadici, altrimenti freddi abbastanza. Macchine da guardia. È così riuscita a mantenere la struttura ospedaliera in un clima sonnacchioso ed estraneo ai disordini (e ai progressi, anche: logico): raramente qualcuno esce di là, più facilmente i cittadini ricoverati passano dallo stadio “acuto” a quello “cronico”.
Viene a spezzare gli equilibri un rissoso giocatore d’azzardo di sangue irlandese, McMurphy. Com’è? Presto detto. Ha la voce forte, e piena di inferno. Le mani grosse, e malconce. È rosso di capelli, ha le basette lunghe. È largo di mascella, di spalle e di torace. Ha un sorriso diabolico, e una cicatrice tra naso e zigomo. Riuscite a vederlo? Dimenticate Jack Nicholson. So che gli somiglia, ma McMurphy ha le braccia più grandi. E ride… ride, e quando ride tutto sembra scuotersi. Chief dice che non sentiva ridere da anni. Non così.
McMurphy era uno che viveva, prima. Scopava e faceva a botte, lavorava dove poteva e giocava a carte. Guadagnando. Riottoso all’autorità, ex eroe di guerra caduto in disgrazia, campava di espedienti e ogni tanto si ritrovava nei guai. Una volta per una minorenne, una volta per insubordinazione. Trentacinque anni, e una discreta – errata – sensazione di avere preso la strada giusta, si presenta spavaldo tra gli alienati. Come in una galleria di Gericault che si anima, e prende vita. Errore, è peggio l’ospedale psichiatrico del carcere: in carcere hai una data di riferimento, per la tua uscita. È quella, non si sgarra. In ospedale dipendi dalle decisioni dei medici; in questo caso, dipendi anche dal parere della Grande Infermiera. Una che non tollera disordine. Non accetta anomalie. Non vuole essere sedotta. E non ha nemmeno intenzione di credere che McMurphy stia simulando. Sta dentro, va curato. E più si ostinerà a scuotere i pazienti, a convincerli di essere normali o comunque di avere diritto a una vita sociale e professionale lineare e comune, più avrà successo nell’impresa, più lei lo odierà.
Diversi gli episodi memorabili della “rivolta” animata, a piccoli passi e per sempre nuove rivendicazioni, dall’irlandese sanguigno e aggressivo (semplicemente: vivo): dalla partita di baseball al televisore (spento) alle sfide a basket, sino agli incontri con delle sue amiche speciali e alla celebre scena all’aperto. Kesey è molto efficace nella rappresentazione del recupero (santo corsivo) di Chief e degli altri, dal “caporione” dei matti Harding, laureato ma fragile, al tenero Billy e Martini: gli “acuti” sono pazienti non inguaribili, giovani e sotto calmanti. Sono ben distinti dai “cronici”, divisi in passeggiatori e vegetali; a volte, sono ex acuti rovinati dagli elettroshock, o da qualche intervento (…) andato male. Hanno un odore terribile, addosso. L’odore dei matti. Quello che ti rimane addosso ancora oggi, se passi qualche ora nei centri di igiene mentale dell’era basagliana. Inconfondibile.
Chief è un “cronico”, passeggiatore. Trascorre le giornate a pulire e spazzare tutto con una ramazza. Osserva e ascolta, senza interagire. La sua mente è confusa dalla nebbia; l’infanzia e l’adolescenza riemergono poco a poco, assieme alla consapevolezza delle violenze e della corruzione sofferta da suo padre e dal suo popolo per mano della cricca. La cricca è, potremmo semplificare, il sistema: erano gli imprenditori e i politici che stavano soffiando le cascate e le case alla tribù, sradicandole e spogliandole di tutto (storia, tradizioni, territorio: tutto), e sono gli infermieri che ti svegliano la mattina presto e ti drogano. Illudendosi di ripararti. Non sono gli psicofarmaci né gli elettroshock a restituire lo scintillio dell’intelligenza in Chief. È questo irlandese vivace e folle. Destinato a un sacrificio non vano.
Kesey è un difensore dell’umanità: della fragilità e della fantasia, della normalità della malattia mentale e della liceità della guarigione; oppositore non solo degli psicofarmaci ma anche delle tecniche di controllo militaresco dei pazienti, sembra aver scritto del giorno in cui i draghi si sarebbero liberati dalle tane, e di cosa si nutrivano e di come vivevano in quelle tane. La sua visione è cupa e triste ma non desolata e irrimediabile: Chief, come sappiamo, fugge via, al termine del romanzo; e fugge dopo aver ucciso la carcassa del suo amico irlandese, lobotomizzato dall’infermiera. Perduto. Speranza c’è, e sprigiona fiducia. La liberazione (dalla gabbia; dalla vita che non è più vita) è limpida, e giusta. In tutti e due i casi. Se quella è morte, è una morte che profuma di vita. Tanto.
Stilisticamente, Kesey dà il meglio nei dialoghi e nella rappresentazione claustrofobica dell’ambiente ospedaliero; c’è, in qualche frangente, un interessante uso delle parentesi con funzione quando di commento, quando quasi di coro – magari con la descrizione di rumori provenienti dall’esterno – ma questa attitudine autoriale non viene valorizzata a dovere. In generale si assiste a una narrazione equilibrata ed estranea ad artifici o espedienti sia retorici che strutturali; emozionali, senza dubbio, ma sottili, sempre. Con grazia.
Consigliato a chi cerca storie drammatiche ma non melense, ben scritte e a tratti davvero toccanti.




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